sabato 19 ottobre 2013

Ü Pitoccu

C'era dalle mie parti, nell'anfiteatro delle cascine che danno sulla valletta di S. Pietro, un uomo che ben ricordo. Gli occhi un po' sporgenti, l'aria da michelaccio e l'andatura stortata dalla gotta, egli era sempre intorno alle tavole imbandite di questa o di quella famiglia.

Lo trovavi nei pomeriggi luglienghi a prender l'ombra dei pergolati d'uva fragola, con un bastone di canna appoggiato alla paglia della sedia e un cane esanime e diseredato steso ai suoi piedi, a pontificare sui malanni che le Strìe portano nelle notti ventose, a dissertare sulla stagione degli ulivi, a dar consigli su tutto, ora prete, ora dottore, gaudente, pioniere, agrimensore. 

Lui, che non aveva mai visto nulla oltre il villaggio, ch'era pieno di malanni e di vino, che non aveva quasi mai lavorato. Lo chiamavano "Ü Pitoccu", un peso, una compagnia, un lazzo, un modo di sentirsi migliori, un contastorie, un uomo di pezza, uno spaventaggio. Fantino convinto, mai prese moglie, ufficialmente per non incorrere nei ceppi della famiglia, in realtà perché era visto come uomo di scarso affidamento.

Gentile, d'una certa eleganza contadina, cortese fino a slanci di galanteria, era visto come una banderuola sul tetto, che gira e fischia dietro al vento, e non gli si para davanti a palvese, come l'uomo avrebbe da fare per il suo focolare. Le donne gli facevan risolini, davanti e dietro, ma niente di più. Restò in casa con un fratello tutta la vita, e poi sparì, dimenticato, dai deschi e dalle aie, personaggio di un tempo di pomeriggi assolati e bicchieri di un vinetto amaro, di formiche sconsolate a vagare sui sassi, di gatti sui tralci del glicine e solitudini antichissime, piantate al centro alla vita della gente come lo stollo intorno a cui si raduna il pagliaio dei giorni che tutti noi si porta addosso.

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